Monsignor Enrico Bartoletti

Lettere a monsignor Enrico Bartoletti

“ IN ULTIMA ANALISI SAREMO GIUDICATI PER L'AMORE”
Il Priore scrive che il suo 'metodo' sta: “nella cruda precisione
e nella cruda aderenza della parola al pensiero”.

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Nel 1958, lo stesso anno in cui don Lorenzo pubblica Esperienze Pastorali, Enrico Bartoletti viene eletto vescovo ausiliare di Lucca. Bartoletti, stimato quale innovatore dei metodi educativi del Seminario, era stato insegnante di scrittura sacra, nel periodo in cui Lorenzo frequentava il primo anno di teologia al Cestello, a Firenze. L'amicizia continua negli anni successivi. La famiglia di Enrico resideva nella parrocchia di San Donato di Calenzano, dove era anche nato. Del loro rapporto, abbiamo cenni nelle lettere di Lorenzo alla madre: “Ieri sono stato a Careggi da un mio ragazzo e poi da don Bartoletti, dove ci siamo un po' presi a parole perché eravamo stanchi tutti e due”. “E' venuto a trovarmi don Bartoletti con sei seminaristi”. “Ieri sono stato al Minore a chiacchera da don Enrico, quando s'è guardato l'orologio erano le 8 meno venti”.
Il “buon rapporto”, iniziato negli anni del Seminario, termina con l'allontanamento, nel '54, del cappellano da San Donato e l'esilio a Barbiana. Don Lorenzo Milani, per quanto isolato dai prelati del luogo, confidava nel suo appoggio, anche per la vecchia amicizia e stima reciproca. Conflitti e divergenze c'erano anche prima, ben espressi dal Priore nella lettera a don Piero, prima parte della seconda appendice di Esperienze pastorali: “Io rimugino pensieri di ribellione. Li alterno a preghiere contrite. Poi d'improvviso mi impongo anche un esame di coscienza: L'altro giorno don Enrico m'ha detto: “Tu dai tutta la colpa ai padroni. Il male lo vedi da una parte sola”. Provo a mettermi in questo ordine di idee. Per scrupolo provo a pensar male anche di Mauro... Ma no; non regge! son cose che si posson dire solo da un tavolino quando gli uomini non son che cifre su un foglio di carta. Che si posson respirare solo nell'aria malsana dei giornali 'indipendenti'. Che si dicono per essere 'oggettivi', per tenersi al di sopra delle due parti. Senza ricordarsi che tra il forte e il debole le parti non sono uguali e non si può distribuire i torti con salomonica indifferenza. Ce n'è tanti che osano parlare così. Me lo dicono degli operai in genere. In faccia a un operaio nessuno si proverebbe! Qui invece bisogna parlare di uomini in carne ed ossa, con un nome e un cognome. Gente che s'è vista in viso, di cui si sa come è composta la famiglia. Esca don Enrico dal suo studio, entri in casa di Mauro. S'immerga sotto il peso di tre o quattro disgrazie come le ha lui. Si provi ad alzare gli occhi sul suo viso. Sul viso che ha ora mentre mi pedala accanto. Quello che ha in chiesa. Quello che ha sui banchi della Scuola Popolare”.
Quello che il giovane cappellano contesta, duramente e senza mezzi termini, è il tipo di cultura che allontana il prete dal popolo e la Chiesa dal povero. La sua pastorale “missionaria”, la sua collocazione di classe, provocò scontri e incomprensioni, fino a dividere il popolo.
In una lettera ad un amico, scritta nel 1971, Bartoletti conferma uno stato d'animo del quale il giovane vescovo non potrà liberarsi mai, neppure dopo la morte del suo illustre allievo: “E' vero che la chiesa - cioè tutti noi - è spesso pietra d'inciampo; però sentire tanta acredine in mezzo a noi, scoprirci irrimediabilmente divisi da quelli che abbiamo amato e amiamo, mi sembra lo scandalo e la sofferenza più grossa”.
NelI'Omelia del Giovedì Santo del 1969 rivolgendosi ai Sacerdoti, torna l'amarezza di una dura considerazione: “... per noi, staccarci da Cristo significa cadere nel nulla della nostra personalità e della nostra funzione; recedere dalla comunione viva con lui, significa decadere nel 'personaggio', staccato ed avulso dalla nostra vita; perdere in profondità e in calore il nostro rapporto con lui, vuol dire rivestirci degli abiti del funzionario scettico e deluso. No, non può esservi per noi che un solo amore, indiviso e invadente, profondo e dinamico, geloso e fedele: l 'amore di Cristo, della sua persona rivelatrice del Padre, della sua realtà umano-divina, della sua presenza misteriosa, ma ineludibile e vera, nella storia del mondo. AMORI CHRISTI NIHIL PRAEPONERE il grande assioma della regola benedettina deve essere il vero ed unico criterio della nostra validità, il segno qualificatore della nostra vita”.
Una religiosità indubbiamente profonda, ma anche parallela a quella del Priore di Barbiana che, nel suo testamento lasciato ai poveri, dirà: “Ho voluto più bene a voi che a Dio ”.
La povertà e il peccato, esperienze di vita mai toccate da tanti prelati, diventano, per Lorenzo, condizioni per lo stato di grazia necessario alla fede, dono di Dio. Almeno così si esprime, pressato da Eda Pelagatti e da don Raffaele Bensi, padre spirituale di Lorenzo ai tempi del seminario, nelle due lettere scritte, poco prima, del ritiro di Esperienze Pastorali. Lorenzo invita Bartoletti a tornare a essere un uomo passionale e a coniugare finalmente i due imperativi della Verità e della Carità. Dure le critiche verso il vescovo di Firenze, coaudiuvato già da monsignor Florit, e di Prato, monsignor Fiordelli. Ancor più dure quelle rivolte a Luigi Gedda, allora presidente dell'Azione Cattolica. Se, da una parte, sente vicini il prete operaio don Borghi e don Divo, dall'altra, violenta è la reazione verso i confratelli che lo hanno allontanato da Calenzano, Campani, Santacaterina ecc... .

Lettera del 10 settembre 1958

Caro Enrico, prima l'Eda e la Dora, (la “perpetua” e una donna del popolo) poi la mamma, poi don Bensi tutti congiurati hanno deciso che io dovevo scriverle un biglietto d'auguri e io obbediente. Saranno però auguri circonstanziati e non generici. Premettiamo subito che questa lettera non vale come un sasso sopra il passato perché io da fedele allievo del proposto “perdono ma non dimentico”. Ma se il mio farsi vivo, anche se a grugniti, è un atto di affetto che le può far piacere lo faccio volentieri. Eccole dunque un primo elenco di auguri che mi sono venuti al cuore appena ho saputo che lei avrebbe avuto in mano quel potere sui parroci che io ho visto così male usato a Firenze e a Prato.
Il primo augurio è che lo Spirto Santo le dia un po' di sfacciataggine e di maleducazione. Le insegni insomma a dire la verità senza preoccupazioni di carità, di pietà, di prudenza, di edificazione. A me risulta che questo lei non l'ha mai fatto e quando se ne parlava insieme lei mi diceva per es. che non è contro la verità il tacere. Ma che vol'ella Eccellenza, che io le auguri ciò che non vorrei per me? Ognuno deve augurare agli altri ciò che stimerebbe somma fortuna possedere lui stesso. Io osservo la fine che abbiamo fatto. Lei la fanno vescovo in odore di santità, me mi fanno priore di Barbiana in odore di finocchio, di eretico, di demagogo. Son tentato di credere che tutto questo abisso tra di noi abbia avuto solo origine dal contrapposto nostro modo di proporre e posporre fra di loro i due imperativi della Carità e della Verità. Ma ormai che queste due nostre contrapposte scelte hanno già raggiunto le rispettive logiche conseguenze: il vertice della loro ascesa (a lei mezzo metro di faldisterio, a me i 470 metri sul mare) ora che non possiamo più mutare il giudizio degli uomini su di noi perché dei vescovi non si dice mai che son finocchi né altra verdura e dei finocchi non si dice mai che son santi.
Ora però restiamo liberi di correggerci segretamente in vista del giudizio di Dio. E mentre io mi sforzerò di amare anche le cose meno amabili per es. i vescovi e le persone onorate e educate, Lei si sforzerà di dimenticare tutto ciò che ha imparato e insegnato in fatto di carità, tatto, prudenza, educazione. Si proporrà di odiare qualcuno fieramente e di dirglielo in faccia. Si proporrà insomma di tornare finalmente un uomo passionale e sguaiato, capace di farsi odiare da una infinità di persone, ma deciso a non fare più bestemmiare la verità del Vangelo da quelli che hanno perso la fede nel Vangelo il giorno in cui si sono accorti che i preti misuravano le loro parole con 7 altri metri prima di misurarle con la verità (carità, prudenza, edificazione, opportunità, consuetudine, psicologia, diplomazia, galateo). Ma non che io abbia ragione e che le possa proporre a imitazione il luminoso esempio della mia vita. Si tratta soltanto di correre su due diverse, diversissime strade, più lontano possibile l'uno dall'altro, ma a somiglianti mete. Io imparare ad avere pietà senza per questo cominciare a dire bugie. Lei smettere di dire bugie senza per questo smettere di avere pietà.

Qui termina il primo augurio. E la dispenso dal rispondermi perché le lettere dei vescovi sono cose delicate e quando un vescovo scrive deve consultare non 7 metri soli, ma 490 metri diversi prima di arrivare al metro della Verità. Il primo di questi metri è la dignità episcopale, il secondo è la solidarietà con i confratelli (come dite voi? Compastori?), il terzo è la congregazione del Concilio, il quarto è San Gedda, il quinto è il prefetto di Lucca, il sesto è che direbbe l'Espresso? ecc. E io illuso che pensavo di poter consigliare a un vescovo a dire la verità. Sono giovane ancora.
Il primo è un augurio disperato come di quello che pisciava in mare. Un augurio che si può fare solo se si crede molto nello Spirito santo. Per confortarmi mi rileggo l'episodio di Pietro ai tempi in cui lo Spirito Santo (era ancora un po' giovane anche lui) consigliava ai papi di rispondere male alle autorità e disobbedire alla legge civile e alle forze dell'ordine.
Il secondo augurio è che lo Spirito Santo lo aiuti a non proteggere i sacerdoti onesti e credenti, ma a tenere in onore solo le spie e gli atei. Tempo fa io non avevo ancora capito questa cosa, ma oggi ne ho intesa l'intima necessità: se lei contraddicesse questa antica prassi della chiesa e onorasse gli onesti a danno dei filibustieri otterrebbe solo che i filibustieri aggiungerebbero ai molti loro peccati anche l'apostasia e la bestemmia, perché non hanno la forza interiore per sopportare la croce. E gli onesti, invece, blanditi dagli onori e dai posti di responsabilità si corromperebbero e distrarrebbero e lei avrebbe così raccolto il bel frutto di una diocesi evirata anche dei pochi preti onesti che le rimanevano e ridotta ad una spelonca di ladroni.
Il secondo augurio è dunque pienamente realizzabile e senza sforzo. Si tratta solo di chinare il capo, non vedere nulla e lasciare che il sadismo resti l'unica regola ascetica del Vicario. Per la diocesi otterrà il bene che or ora ho detto e per lei otterrà la salvezza dell'anima perché vivere circondati da certa gente deve essere una gran croce, mentre vivere circondati da brava gente una grande gioia. Ma la croce è salutare. Tenga dunque la croce e non si discosti in nulla in questo dalla prassi dei suoi venerati compastori.
Il terzo augurio è per il seminario di Lucca. E questo è un augurio pieno di speranza fiduciosa. Questo lei lo può fare. Ora non ha più nessuno sopra di lei. Si chiuda in seminario, chiuda la porta dietro di sé, non veda, non riceva nessun altro, lasci al sapiente sadismo del Vicario tutte l'altre cure pastorali, lasci le molte e inutili conferenze, venda il campanello del telefono, diabolico interruttore di pensieri e discorsi. Prenda i seminaristi a tu per tu e li educhi diversi da lel. Li educhi sinceri. Cioè, correggo, li educhi, così come lei è nel suo intimo là dove io sinceramente la stimo capace di fare immenso bene, ma non li educhi così come lei si impone di apparire. La prima regola sarà che un seminarista che non commette mai un peccato contro la santa purezza (e poi dicon che io sono sboccato!) non può aspirare al sacerdozio. Occorre almeno un anno di 'prova' (ma non la 'prova' che intende la Congregazione) per aspirare a diventare pietosi amministratori del sacramento del Perdono. Una volta ebbi la disgrazia di incappare in un confessore che in vita sua non si era mai fatto un 'peccato contro la santa purità' e mi fece: Oooo (suono della eu francese) per un quarto d'ora e poi disse “Scellerato”.
Lei la pensa come me. Lo so perché glielo ho sentito quasi dire. Lo so perché l'ho quasi letto sul Vangelo in più di una sua pagina. Lo so perché lo pensiamo tutti ogni giorno, ogni volta che confessiamo i ragazzi puri. Ragazzi insignificanti che non riusciamo a invidiare neanche dopo aver sorbito 7 giorni di 4 prediche di un'ora ogni giorno dagli oblati di Rho. “Avete modo di confessarvi la mattina prima della Messa?”, domandai anni fa a un seminarista di Settimello. “Sì, in teoria ci sarebbe il modo, ma non lo fa nessuno, tanto cosa serve? Quando uno si è confessato la sera. Come si fa a far peccati la notte?” C 'era presente un ragazzo di S. Donato, un tessitore di 15 anni. Mi guardò un attimo poi guardò gli occhi di Antonio, scosse il capo poco convinto e gli disse: “Io lo so come si fa a fare peccati di notte. Se voi li fate di giorno siete peggio di me”. Lei la pensa come me e allora là dentro ora lo può dire. Quelli puri li faccia visitare a un dottore. Quelli impuri li mandi avanti e li abitui a confessare bene.
Non le consiglio mica di far dire parolacce ai seminaristi. Nonostante la mia fama io ne dico pochissime. Appena appena quelle per il consumo. I giovani migliori tra quelli che ho educato io non ne dicono assolutamente mai (lo domandi a chiunque). Non è nelle parolacce il mio 'metodo', me ne vergognerei. E' però nella cruda precisione e nella cruda aderenza della parola al pensiero. Ed è inutile rispondermi con raggiri comuni a lei e a don Bensi: “Quella non è sincerità, è una ostentazione di sincerità che alla fin fine è una nuova truffa maggiore della prima”. A me questi discorsi mi danno noia perché non sono un cretino e se abituo i ragazzi alla sincerità li abituo proprio così entro quel limite e non oltre e furbo quanto voi dite sono anch'io per saper distinguere la sincerità vera dalla ostentazione.
Ma il sesto comandamento è solo un particolare perché un seminarista che cova e nasconde in cuore turbamenti de sexto non è in peggiori condizioni di un altro che cova e nasconde turbamenti sul Papa che ha detto il mese scorso che “non tutte le guerre sono ingiuste” e che quelle giuste devono esser “ben preparate e tempestive”. O d'un altro che non riesce ad equilibrare l'affetto per il babbo comunista e la convinzione che gli ispirano certi racconti vivi di soprusi padronali e governativi che ha sentito in vacanza, con la diffidenza che gli ispira il tono conciliante e reticente della politica cristiana che gli si racconta in semmario.
Questa del seminario è la penitenza che io le propongo per le molte bugie che ha detto nella sua vita e che le han valso il pastorale. Ho inteso che il mio primo augurio è fuori delle sue possibilità umane. Insisto allora in quest'ultimo. Butti la vita intera su di loro per costruirli come lei non ha saputo essere. E poi dimenticavo, non tralasci di innalzare il livello della loro preparazione umana, diminuendo le materie scientifiche. Da quel che ho visto io per ora, quello che occorre è solo la lingua. Bisogna fargliela amare come il dono più alto che abbiamo. Tutto quello che riguarda la parola è lo studio adatto per noi: filologia, grammatica, sintassi, etimologia, lingue antiche, lingue moderne. Bisogna fargliene tanta e tanto viva che finiscano per averne grande gioia. E devono amarla col cuore sempre proteso verso gli infelici, di cui un giorno saranno pastori e che proprio della lingua avranno bisogno. Bisogna che i seminaristi abbiano ben presente che il muro contro cui cozzeranno è questo vuoto immenso di lingua che hanno i poveri e che passino quei loro tredici anni di martirio a prepararsi con fede e speranza amando il greco più della Gazzetta. Ora ecco tra i miei auguri gliene ho fatto uno ben possibile. Dirle di produrre seminaristi santi sarebbe ben stupido perché non è in suo potere. E dirle di produrre seminaristi impuri e dolenti son cose che tutti pensiamo, ma non si possono dire. Vanno intese a volo e non dette. E dirle di produrre seminaristi schierati per la classe operaia sarebbe ovvio ma lei non ne avrà mai il coraggio. Ma dirle di produrre seminaristi padroni della parola e capaci di amarla e di insegnarla e appassionati a qualcosa che non sia troppo pericoloso come sono le cose sociali, né troppo basso come sono le cose di sport, né troppo vago come sono le cose dell'estetica (musica e arte), né troppo pio e incredibile come sono gli insegnamenti ottimistici di una chiesa tutta santa da Fanfani a Tirapani, né troppo noioso e disgustante come sono le materie di studio delle scuole, là dove la corsa a finire il programma, presentarsi agli esami e tenersi in pari col mondo toglie ogni amore alla bellezza intrinseca che tutte queste materie hanno quando si studiano in libertà, appassionarsi, dicevo, alla lingua sarebbe ancora una proposta molto moderata e realizzabile in seminario anche da un vescovo timido. Ma come le avrei chiesto poco se le chiedessi solo questo.
E come vorrei parlarle anche di tutti gli oppressi e come vorrei non dover lasciare ogni speranza nel suo coraggio. Non nel suo, quello materiale, che le è mancato tante volte, ma in quello che lo Spirito Santo aveva certo il potere di infonderle ieri l'altro anche se passava per un canale ben vile quali erano le mani di Fiordelli Pietro, calunniatore di preti che non ha mai visto in viso. Io credo fermamente che lo Spirito Santo che lei ha avuto sia il medesimo che infiammò 300 anni di vescovi martiri a opporsi fieramente al potere civile e rifiutarne le leggi e se oggi i vescovi hanno paura delle multe di 40.000 (Si riferisce al vescovo in treno?) lire e ne portano il lutto non è che abbia perso calore il soffio dello Spirito, ma è perché non sono stati degni i vasi (scusi il vocabolo, ma è biblico). Lo sia dunque lei, e siccome lo Spirito è sempre il solito se ne vedrà delle belle.
Si vedrà Enrichino, l'uomo che non avrebbe fatto male ad una mosca e che per non guastarsi con nessuno si guastava con tutti, si vedrebbe Enrichino diventare Enrico il grande, schierato con gli oppressi per partito preso, battagliero, inflessibile, mai zitto, mai prudente, mai pago di soluzioni intermedie, mai impietosito per i signori (son pecorelle anche loro poverini), mai timoroso di perdere quel posto che la Chiesa gli ha dato, ma che la Chiesa non gli può più togliere perché è ormai vidimato da un Sacramento.
Che sogno! Ma creda, ora, quando dicevo oppressi non pensavo a me, né a Borghi , né a don Divo, noi stiamo bene così e temiamo la protezione dei forti come un segno dell'abbandono di Dio. Parlavo invece degli analfabeti e semi-analfabeti, operai e contadini, e non chiedevo pietà per noi, perché valiamo più di coloro che ci opprimono e quindi non saremo mai veri oppressi veri ma chiedevo pietà e solidarietà per quegli infelici che non sono capaci di intendere il valore santificante della ingiustizia subita, a cui la Croce non fa bene, ma male. E ora la saluto con affetto cristiano e con rancore umano. E inutile che le ricordi il principale dovere dei vescovi secondo la circolare segreta della SCC (Sacra Congregazione del Concilio) la quale obbliga gli ordinari a fare attiva propaganda tra il clero per la diffusione del libro di don Milani. In genere i buoni vescovi usano ordinare a loro spese tante copie quanti sono i loro preti e seminaristi e distribuire le copie nel giorno delle palme insieme al ramoscello d'ulivo. Ma lei, visto che è amico dell'autore può andare anche più in là e donarne una copia per famiglia a tutta la diocesi facendola distribuire dai preti in occasione dell'Acqua santa in cambio di un paniere d'uova. Zani (l'editore) sarà lieto di farle condizioni di favore e lei con la vendita delle uova si troverebbe coperto. Un abbraccio affettuoso suo

Lorenzo MilaniLettera del 1 ottobre 1958

Caro Enrico, tempo fa fui trattato come un pellaio da don Bensi, perché non le avevo scritto. E ieri sono stato trattato come un pellaio da don Bensi perché le avevo scritto. Dunque il giusto stava nel mezzo cioè nello scriverle due auguri di circostanza.
Mi son provato a spiegare a don Bensi che stimo sommo spregio il non parlare con uno e sommo affetto il parlargli. E perciò, avendo capito che avevo ecceduto nel silenzio, avevo pensato di romperlo nella occasione festiva dell'ordinazione episcopale dicendole quello che penso. Non l'avessi mai detto. Sono stato trattato come un pellaio per la terza volta perché dire quello che penso non è dire quello che penso.
La verità? Che cosa è la verità? Sincerità? Chi è sincero te, o Enrico? Nessuno dei due. Ne te, né lui, né io. Non siamo sinceri nessuno. La lealtà? parole. La schiettezza? E' una frode peggiore di quella del tacere. In conclusione - mi son provato a dire - facevo meglio se facevo come avevo pensato di fare prima. Cioè tacere. Stare in vetta al monte Giovi e non scrivere a nessuno. Tuoni, fulmini e saette. Ecco l'ultima sciagura: infallibile! tu sei infallibile peggio del padre Perego! e non è poco! E io infelice che dicevo che con i contadini non c'è verso d'intendersi. Colle persone fini invece pure. Andatelo dunque a prendere in culo quanti siete. Ma neanche questa è una saggia risposta. Perché dopo ho visto Serafino (che quando le scrissi l'altra volta non avevo ancora rivisto da due anni) e mi ha commosso il suo tenerissimo affetto per lei e il suo raccontare come ella sia vittima di infiniti nemici e ostacolatori e che conduce una infelicissima vita. Allora ancor più ho desiderato rompere l'ostracismo che le avevo dato. Ma dopo aver lungamente decifrato l'ermeticissimo modo di rimproverarmi di don Bensi, non riesco a dargli ragione, né vedo modo migliore di parlarle da amico se non col fare ciò che ho fatto l'altra volta. Ognuno può dare solo quello che ha. Ciò che ho è quello che penso e mentre sono disposto in ogni momento a ritirarlo e a contraddirlo appena mi sia dimostrato che pensavo male, non sono assolutamente disposto a farmi intimidire da discorsi a pera in cui rigirando le parole e rigirandole si può dimostrare che il vero non è vero e che la verità non esiste o per lo meno che non è alla nostra portata in nessun campo, non solo nel metafisico, ma nemmeno nel campo modestissimo di alcune piccole verità di ogni giorno, che gli infallibili come me si illudono di possedere. Sicché io dovrei concedere che tra il mio modo e il suo di manifestare il pensiero non ci sia nessunissima differenza e che se io mostro i denti ai nemici e il sorriso agli amici sono nelle stesse identiche condizioni di lei che sorride senza la più piccola sfumatura di differenza al calunniato e al calunniatore?
Questo è il gioco dei bussolotti ed io non ci sto perché il mio scetticismo non è ancora arrivato al grado di quello di don Bensi al quale detti il manoscritto del mio libro (Esperienze Pastorali) per chiedergli di togliere tutto quello che non andava bene e che me lo rese dicendo che non togliessi neanche una virgola e che in discussione non si perita di darmi dell'infallibile con sommo spregio o a dire che di tutto quello che è scritto nel libro si può dire esattamente il contrario senza mancare minimamente alla verità perché è vero ciò che io dico ed è vero anche il contrario, tanto in ultima analisi saremo giudicati per l'amore che avremo messo nelle cose.
Ed io ho più di una concretissima prova che don Bensi approva il mio libro perché appunto lo stima opera d'amore. Ma come posso accettare che tra il mio libro e un bacio non ci sia sostanziale differenza perché tutto ciò che è nel libro oltre all'atto d'amore è tutto vanità di vanità, pretesa di realtà che realtà non è, pretesa di sincerità che è frode. Ho rammentato il mio libro perché veramente stimo che il mio modo di vivere, parlare scrivere lettere non ne differisce per nulla. E perché, mentre non pretendo affatto di aver sempre ragione e che le cose che dico sian vere tutte, pretendo però che una ragione debba ben esserci e che una verità esista cui ci si può gradualmente e faticosamente avvicinare. E non solo una verità metafisica, ma anche nelle cose contingenti.
Può essere più santo il Campani (prete confinante con la parrocchia di San Donato) che corre il seminario per raccontare a ciascun seminarista che io son finocchio, che non io che raccolgo l'offesa e taccio. Può essere più santo perché la sua miseria morale e intellettuale lo scusa, mentre nel mio silenzio può annidarsi il veleno sottile dell'orgoglio. Questa è una valutazione che spetta a Dio e che sfugge del tutto a noi mortali. Ma non per questo posso accettare che uno che racconta ciò che sa non essere vero non sia oggettivamente un bugiardo. E uno che racconta ciò che disonora non sia un calunniatore. E uno che non tocca o non fa toccare determinate parti del corpo sia finocchio o prete infame. Queste son quelle che chiamo verità oggettive e per le quali pretendo di cercare l'esattezza dei termini e sulle quali voglio essere illuminato e nelle quali (fatti alla mano, ragioni alla mano) sono disposto a ogni istante a correggere o riformare il giudizio.
Ed eccoci ora all'atteggiamento esteriore. Abbiamo davanti il Milani e il Campani o il Santacatterina (il nuovo parroco a San Donato), o il Biancalani (parroco di S.Niccolò a Calenzano), o il Franceschi, o l'Agresti, o il Centi.... Dobbiamo amarli ambedue egualmente perché son due deboli creature bisognose di pietà l'una e l'altra per i loro grandi (sebbene diversi) peccati. Ebbene, questo uguale amore va manifestato con uguale sorriso? Oppure a uno si manifesta con due secchi colpi al mento educatori e riformatori, all'altro con una qualsiasi manifestazione pubblica di stima non esaltatrice e inorgoglitrice, ma solo rettificatrice di valori oggettivi. Semplice atto di giustizia. Ecco quello che ho chiamato nella mia ultima lettera una vita intessuta di bugie e che stimo diversa dalla mia proprio su questo punto.
Son io dunque sicuro che la mia sia stata intessuta di verità? o mi son forse illuso dl aver trovato la verità, mentre non ho trovato che un po' di spudoratezza malsana? Ripeto che son pronto ad accettare un consiglio (non un sofisma a pera), cioè per es. “guarda nel tal giorno, con questa tal parola, tu hai truffato tanto quanto Enrico per questo e questo motivo”. Può ben essere che questo sia avvenuto talvolta, ma io me ne pento e vorrei che questi miei errori non fossero ricordati e messi in luce per potermene in futuro tenermene lontano, perché sono intimamente sicuro che esista oggettivamente la possibilità di essere sinceri, limpidi come l'acqua limpida.
E se questa possibilità esiste essa coincide con la cosa che più desidero. E mi par lecito consigliarla e augurarla anche ai miei amici. Tanto più che l'esperienza pastorale mi convince ogni giorno di più che senza questa limpidità i preti non risaliranno l'abisso di diffidenza che si sono creati intorno e non saranno mai più accetti alla classe operaia.
E come mai potrò convincermi che questo ideale cui così fermamente credo debba disdire in un vescovo? E quale mai discorso di prudenza, di galateo, di opportunità potrà spiegare come a chi possiede la pienezza del Sacerdozio di Cristo debba essere preclusa la possibilità della pienezza della sincerità di una qualsiasi persona per bene? Ed ecco di nuovo che io dovrei ridere anche di questa lettera con il riso di don Bensi e sentirmi dire: son tutte chiacchiere anche queste. Io penso invece di aver voluto rendere un servizio. Se voi vi divertite a dirle che ho voluto farle un dispetto, andate al diavolo l'uno e l'altro e ricomincerò col silenzio diaccio, mi bastano e avanzano i bambini di Barbiana e non mi sarebbe mai passato per la mente di scriverle se don Bensi non m'avesse fatto capire che ella della mia trascuranza era amareggiato.
Un saluto affettuoso e non si dia pena di rispondermi, ma piuttosto, come l'altra volta si è dato pena di raccontare a don Bensi che io le avevo fatto i dispetti, così oggi si dia pena di fargli sapere che era stato un falso allarme e che invece di dispetti si trattava di burbere carezze.

Lorenzo Milani sac.

 

 

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